Il seguente articolo è stato riportato su La Repubblica.it nel 5 gennaio 2005.
“I Gladiatori lottavano per finta”
Nuova teoria di un archeologo
Morire al Colosseo? Per un gladiatore sarebbe molto più probabile essere ucciso a Hollywood. È quanto sostiene Steve Tuck, archeologo statunitense che, esaminando una serie di reperti provenienti dall’antica Roma, si è convinto che i combattimenti gladiatori erano delle messe in scena, paragonabili ai moderni match di wrestling, nei quali nessuno si faceva male davvero. Nulla a che vedere, dunque, con le scene cruente di certi kolossal hoolywoodiani, come Quo Vadiso il Gladiatore.
“La lotta gladiatoria è sempre stata associata all’uccisione e allo spargimento di sangue,” ha spiegato Tuck in un articolo pubblicato dalla rivista New Scientist, “ma in realtà penso che si trattasse di un’arte marziale a puro scopo d’intrattenimento, volta a far divertire gli spettatori.”
Per circa 800 anni criminali, prigionieri di guerra e schiavi erano comprati da facoltosi romani per essere addestrati a combattere nei giochi gladiatori. Lottavano fra loro o contro gladiatori professionisti, che erano uomini liberi, in anfiteatri come il Colosseo usando spade, arpioni e lance. Generalmente dovevano sostenere due o tre combattimenti l’anno e se riuscivano a sopravvivere a cinque anni di combattimenti, potevano ottenere la libertà. Ma secondo Tuck, che ha analizzato 158 immagini risalenti a quel periodo raffiguranti i giochi, il rischio per un gladiatore di venire ucciso era quasi inesistente. Lo studioso fonda la sua tesi su un raffronto delle immagini contenute su lampade e dipinti murali con i manuali sulle arti marziali prodotti in Germania e in Italia durante il Medioevo e il Rinascimento. Da questo confronto emergono una serie di similitudini, dalle quali risulta che lo scopo del gladiatore era semplicemente quello di sconfiggere l’avversario, non di ucciderlo.