La lingua o le lingue che parliamo…

(addattato da un articolo sul Corriere della Sera)

Si dice che Carlo Magno abbia detto:  “Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima”.   Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma (o modella) il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse.  Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ’60 e ’70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio.

A partire dagli anni ’80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf.  Così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio contiene in sè una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla.  Un esempio è il senso di colpa e di giustizia.  In inglese se un vaso si rompe si sottintende sempre la presenza e quindi la responsabilità di qualcuno.  In spagnolo, al contrario, si tende a dire semplicemente che il vaso si è rotto.  C’è una tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.

Secondo un numero sempre più nutrito di studi, il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire.  Essere di madrelingua inglese, cinese, italiana, o russa ha effetti diversi sull’architettura del pensiero.  Succede perchè ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo.

Ci sono influenze culturali, spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano:  “La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico”.  In cinese, la parola “drago” ci rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza.  Inevitabilmente un cinese vedrà in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale.  Accadrà lo stesso a un bilingue:  per un anglo-cinese un drago sarà meno spaventoso che per un inglese.  “La visione culturale sottesa alle parole di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma—sottolinea Abutalevi—il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce.  In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose.”

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti  perfino sulle decisioni coscienti.  Uno studio ha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali.  I partecipanti all’esperimento  accettavano di sacrificare una persona per salvarne cinque—facendo una scelta “utilitaristica”—più spesso se veniva loro chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il loro parere in madrelingua:  in questo secondo caso prevaleva infatti il divieto morale a uccidere.  “Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perchè mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti,”  dice Abutalebi.

E la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto l’economista Keith Chen dell’Università di California a Los Angeles.  I cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite”.  Questo forse perchè “identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare,” ha spiegato Chen.

Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo.  Uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno primo di essere maschi o femmine anche perchè la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade.

Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo una rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.

 

 

 

 

 

 

 

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1 Response to La lingua o le lingue che parliamo…

  1. Jo Ann Chase says:

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