L’inglese: La lingua comune per l’Unione Europea?

Di quando in quando, gli europei sollevano la questione di una lingua comune nella costruzione di una democrazia transnazionale europea. Alcuni osservatori ritengono che puntare su un’unica lingua, segnatamente l’inglese, sia la scelta giusta per permettere l’emergere di un sentimento di solidarietà continentale. La tesi secondo cui una democrazia ha bisogno di una lingua comune per funzionare, nella filosofia moderna, rimonta a John Stuart Mill.

Ma è lecito essere scettici a riguardo. È davvero possibile che l’idea non ha validità generale e che non si è dimostrata adatta a tutte le circostanze. Per funzionare le democrazie hanno bisogno di una comunicazione efficace e inclusiva, ma non necessariamente una sola lingua in comune. La Svizzera mostra che è possibile avere una democrazia multilingue solida ed economicamente rigorosa. La Spagna e la Belga mostrano invece che imporre una lingua nazionale sulle altre rischia di generare tensioni sociali e politiche.

Nell’Unione Europea l’inglese è la lingua materna di circa il 13 per cento dei cittadini. Quindi l’inglese non è e può essere una lingua “neutra” come il latino medioevale o l’esperanto. In una Europa anglofona i madrelingua inglesi godrebbero di vantaggi indiscutibili, ma per molti versi inaccettabili. La posizione egemone dell’inglese in Europa frutta al Regno Unito nel risparmio sulle spese di insegnamento delle lingue straniere e sulle traduzioni. E l’inglese permetterebbe anche ai paesi al di là della Manica di attirare più facilmente personale altamente qualificato e studenti rispetto agli altri Stati europei.

Non è chiaro in che modo la promozione dell’inglese come unica lingua comune gioverebbe alla causa della democrazia continentale e alla solidarietà fra popoli. Se bastasse una lingua unica come l’inglese per rendere i popoli “più europei,” i britannici dovrebbero già essere i maggiori sostenitori dell’Europa unita. Il 56 per cento dei tedeschi e 51% dei greci dichiara di avere una conoscenza almeno scolastical dell’inglese, ma ciò non ha impedito che in occasione dello scoppio della crisi del debito nella zona euro sorgesse una reciproca e profonda diffidenza fra le opinioni pubbliche dei due Paesi.

Diversi studi invece mostrano che l’utilizzo prevalente dell’inglese come lingua unica in Europa per le faccende politiche ed economiche ostacola la costruzione di una vera democrazia europea più di quanto non la favorisca. L’inglese è infatti una lingua conosciuta molto bene solo da una esigua minoranza dei cittadini europie. Nonostante decenni di insegnamento nelle scuole solo il 7-8 per cento della popolazione europea non madrelingua inglese dichiara di avere una conoscenza molto buono di questa lingua, cioè una competenza linguistica adequata a partecipare alle attività politiche in una democrazia anglofona. Non ci sono grandi differenze tra le generazioni, mentre la conoscenza tende a concentrarsi fra i cittidini europei appartenenti alle fasce della popolazione più istruite e con reddito da lavoro più elevato. Insomma una politica monolingue creerebbe diseguaglianze fra Stati membri e fra ceti sociali, alimentando sentimenti di lontananza verso le istituzioni europee.

La politica multilingue dell’Ue, il rispetto delle diversità e un diffuso insegnamento di diverse lingue europee nelle scuole e nelle università, invece, rendono possibile una gestione più efficace e inclusive della comunicazione transnazionale europea. Gli europei continuano e continueranno a vivere e lavorare all’interno dei confini geografici e mentali degli stati nazionali. La situazione tipica che si osserva in pratica non è quella di un calabrese che dibatte di austerità fiscale con uno slovacco, ma quella di un calabrese che discute con un campano degli effetti sull’economia italiana del rigore fiscale tedesco. Avere informazioni in italiano su quello che accade nelle istituzioni a Bruxelles o Francoforte e sapere un po’ di tedesco, in questo caso, è quello che serve.

Investire su lingue quali Tedesco o francese è strategico non solo per i motivi legati alla costruzione europea ma anche per motivi commerciali. In primo luogo, Germania e Francia sono le principali destinazioni delle esportazioni italiane. Inoltre, l’inglese non è l’unica lingua a essere remunerata sul mercato del lavoro. Secondo alcuni recenti studi sulla redditività delle competenze linguistiche sul mercato del lavoro europeo, in Italia la conoscenza del tedesco e del francese, in termini di reddito individuale, rende di più in percentuale rispetto all’inglese, e questo accade proprio perchè si tratta di competenze più rare e quindi più remunerate.

Il problema non è l’inglese in sè, ma l’egemonia di una lingua ufficiale dell’Unione sulle altre. Le istituzioni europee nate dopo la fine della seconda guerra mondiale sono state create proprio con l’intento di neutralizzare le spinte egemoniche di un Paese sugli altri delegando alcuni poteri a istituzioni comuni sovranazionali che rappresentano tutti gli Stati membri. Il multilinguismo istituzionale non è altro che il corollario linguistico di questa idea. A chi obietta che garantire la comunicazione nelle 24 lingue ufficiali dell’Unione è troppe caro va fatto notare che il multilinguismo costa ai contribuenti solo lo 0.0085% del PIL dell’insieme dei 28 Stati membri, meno dell’1% del bilancio delle istituzioni europee e poco più di due euro all’anno a cittadino. È difficile ritenere che si tratti di costi insostenibili, specialmente se confrontati con i costi delle diseguaglianze di un’Europa monolingue.

Questo articolo è si basato su un’intervista che è apparso sul Corriere della Sera lo scorso anno . Purtroppo , non riuscivo a trovare il nome dell’autore.

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